Il B&B Nari a Gaeta mediavale vi segnala alcuni dei prodotti tipici della tradizione gaetana, è possibile richiedere alla receprion la preparazione di cesti con tute le specialità, compresi i dolci artigianali presenti con la prima colazione.
Vista da fuori sembra la pizza con la scarola napoletana, i sapori di mare all’interno sembrano quelli del chichì dell’Ascolano, mentre la ricchezza dei gusti ricorda quella del siciliano pizzolo di Sortino. E non potrebbe essere altrimenti: siamo a Gaeta, terra di mare, nel Lazio dal punto di vista amministrativo, ma da sempre ultimo baluardo di quello che una volta era il Regno di Napoli, dal quale arrivavano sapori e influenze. E proprio a Gaeta ci conduce il nostro viaggio tra le pizze e le focacce d’Italia, questa volta alla scoperta di una tra le più guduriose: la tiella di Gaeta (da non confondere con quella pugliese, che è tutt’altra cosa).
Un piatto popolare, nato da quello che il territorio di Gaeta era in grado di offrire: farina, verdura e pesce. Particolarmente apprezzato dai pescatori, che infilando gli ingredienti tra due pizze potevano conservarli più a lungo. La tiella non è infatti altro che due sfoglie di pizza intervallate da un gustoso ripieno di terra e, soprattutto, di mare. Polpi, sarde, alici, baccalà, scarola, pomodoro, cipolle, formaggi. E le immancabili olive nere di Gaeta. Ma come si prepara la tiella? L’impasto è molto simile a quello della pizza napoletana, a base di farina, lievito, acqua, sale e olio extravergine d’oliva, che poi viene lasciato lievitare per circa un’ora. Si stende l’impasto ottenendo due dischi alti non più di un centimetro,e si sistema su una teglia unta d’olio. A questo punto si aggiunge il ripieno sul primo disco, si copre con il secondo e si chiude il bordo con le dita. La superficie va poi bucherellata con una forchetta, quindi si aggiunge un filo d’olio extravergine d’oliva e poi si mette in forno.
Ma il segreto della tiella è nei ripieni, e ce ne sono dei più disparati. Il più goloso è probabilmente quello a base di calamaretti, da cuocere in tegame senza aggiungere nulla e poi da tagliare a tocchetti. Con questi si prepara un gustoso sugo aggiungendo pomodoro, aglio, prezzemolo, peperoncino, vino bianco e olio extravergine d’oliva. E lo stesso si può fare anche con polipetti o seppioline, o meglio ancora tutti e tre. Influenze campane nel ripieno con scarola e acciughe, oppure scarola e baccalà, in entrambi i casi con un condimento di aglio, peperoncino, prezzemolo, olio extravergine d’oliva e olive nere di Gaeta. Assai gettonata anche la tiella con acciughe o sarde fresche, dove si evidenzia anche qui l’influenza dello stile “a scapaece” si origine spagnola-partenopea: il pesce, infatti, viene lasciato macerare per circa mezz’ora in aceto e vino bianco, schiacciato con le mani e sgocciolato e poi condito con olio, aglio, peperoncino, sale e olive nere, prima di entrare nella tiella. Tipici ripieni di terra sono invece quelli della tiella con cipolla, scamorza, uova e parmigiano; oppure con spinaci, ricotta, pinoli e uvetta. Ma nel ripieno della tiella di Gaeta possono comparire anche cozze, vongole, salsicce, broccoletti, melanzane, peperoni e chi più ne ha più ne metta.
Piatto popolare, dicevamo, che però nemmeno gli aristocratici disdegnavano, specialmente se nel ripieno c’erano i pregiatissimi calamaretti. Pare che ne fosse particolarmente ghiotto il re Ferdinando IV di Borbone, il “re lazzarone”, così soprannominato perché amava travestirsi da popolano per frequentare i bassifondi della città, gustandosi le veraci ricette e i divertimenti dei “plebei”. E pare che lo abbia fatto anche a Gaeta: anzi, secondo la leggenda fu proprio lui ad inventare la tiella. Pare infatti che, stupito dall’abilità con la quale le massaie preparavano la pizza, fosse stato lui a consigliare il doppio strato con ripieno, battenzando un piatto unico in grado di fare da “primo, secondo e terzo”. Cibo di re e pescatori, nobili e contadini, poi di emigranti, fino al calo dei consumi nel Dopoguerra (ritenuto forse, a torto, simbolo delle miserie passate) e alla riscoperta e al grande successo degli ultimi anni, anche grazie al riconoscimento Deco.
Pasquale Di Ciaccio, storico e scrittore, nel 1976 nella sua Guida di Gaeta descriveva così l’ “approccio” alla tiella: “La si mangia a quarti, senza l’aiuto delle posate. Non c’è gusto se non la si prende tra le dita. La prima verifica della riuscita si effettua sul requisito della compattezza. In un esemplare che si rispetti il lembo inferiore non deve essere gommoso da appiccicarsi ai denti o al palato, né spenzolare dalle dita come la lingua d’un cane affannato facendo sgocciolare frammenti del ripieno. I nostri avi la preferivano condita abbondantemente. L’olio – dicevano – deve poter scorrere sulle avambraccia. Difatti si rimboccavano le maniche prima di mettersi a tavola. Oggi che la fragilità del nostro apparato digerente impone problemi di linea e di dieta, il ricorso all’olio e alle spezie s’è fatto molto moderato; senza peraltro che ne abbia sofferto il sapore e l’aroma. La prodigiosa adattabilità ai mezzi che di volta in volta ci offre il progresso ha consentito alla tiella di conservare le sue essenziali qualità originarie. E’ il suo pregio maggiore, il segreto della sua fortuna, della sua abbagliante vitalità”.
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